ROBERTO OSCULATI

Ordinario di Storia del Cristianesimo
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania
(1987 - 2012)
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Il linguaggio cristiano del divino oggi

in Impense adlaboravit, a cura di F. Armetta e M. Naro, Palermo, pp. 131-142.

1. Una complicata eredità culturale

Il modo di parlare del divino nelle culture di antica eredità cristiana è frutto di una stratificazione assai composita. Il problema di Dio è giunto a noi attraverso una storia religiosa che ha raccolto in sé molti aspetti differenziati, dalle origini e dai significati non immediatamente affini. Sia il linguaggio ecclesiastico, sia quello della cultura cosiddetta laica, sia quello più comune delle singole persone assomigliano ad un conglomerato che deve essere oggetto di un'analisi accurata. Essi evocano generalmente esperienze, convinzioni, tematiche che hanno subito una lunga evoluzione e il cui significato non è evidente. Possiamo cercare di ripercorrere brevemente alcune tappe di quel percorso.

Una prima e fondamentale fonte del più comune linguaggio religioso è la Bibbia ebraico-cristiana, con il suo Dio fortemente personalizzato, re, padre, pastore del suo popolo, dotato di forte sentimento d'amore e di ripulsa. Il Dio della Bibbia è origine di ogni vita, ordinatore sovrano della natura, legislatore accurato della società e del culto, tempestoso vendicatore del male, regolatore degli eventi storici, appassionato salvatore dei suoi eletti, supremo giudice di ogni creatura. Tuttavia questa immagine del divino, quale appare soprattutto nella legge e nei profeti d'Israele, è continuamente soggetta ad una rinnovata interpretazione nel mutare delle esperienze storiche. Un'idea patriarcale e regale del divino sembra continuamente soggetta ad una dialettica che lo libera dai tratti più grevi, per renderla ideale di una vita affrancata finalmente dal male e della morte, dai tradimenti e dai castighi, dagli orrori di una storia infelice, dai nazionalismi e dalle vendette. Soprattutto la profezia d'Israele è continuamente all'erta nel proporre un'immagine del divino quale ideale di vita semplice, austera, pacifica, universale, ugualitaria in un mondo purificato dall'arroganza umana. Questa infatti è il principio della colpa e della morte, degli artifici pericolosi su cui si costruisce una storia che volge sempre verso la rovina.

I grandi imperi del mondo antico a nord e a sud d'Israele, con i loro apparenti trionfi e la loro rovina irrimediabile, e le sciagure del popolo eletto insegnano che solo un cuore puro, semplice e penitente è il luogo del vero culto spirituale, aperto ad ogni essere umano conscio della sua miseria e della propria responsabilità. A questa immagine del divino, così piena di luci e di ombre, così sfolgorante e sfuggente, così esigente ed enigmatica, il Nuovo Testamento cristiano aggiunge la figura di Gesù. Essa esaspera il messaggio morale e personale dei profeti, distrugge il nazionalismo israelitico e le forme del culto ad esso proprie, per proclamare la nuova via universale di accesso al divino attraverso la fede e l'amore, l'accoglienza di un dono di misericordia e la sua imitazione morale. Gesù stesso diviene la legge vivente ed operante nei suoi e la parola evangelica compie definitivamente le prescrizioni mosaiche nella loro istanza più profonda: l'amore di Dio e del prossimo. Il Dio creatore, legislatore e giudice assume il volto del padre soccorrevole. Il credente si fa figlio umile e fedele imitatore dell'amore universale del Padre. Il Dio dell'evangelo appare così ancora più esigente di quello legge. Mentre offre un dono ne chiede uno. L'ideale di Dio si fa principio di un'etica umana di universale comunione, quale la presenta ad esempio Paolo alla comunità di Roma (Romani 12-13).

Una seconda componente del linguaggio religioso usuale del cristianesimo proviene dalla filosofia greca con il suo empito di chiarezza concettuale e di universalità logica. Essa ha influenzato fin dalle origini il concetto cristiano del divino, anzi ha esercitato il suo influsso profondo su quell'ebraismo dal quale sarebbe nato il cristianesimo. E per una lunga serie di secoli la filosofia platonica, quella stoica e quella aristotelica sarebbero servite per dare vigore razionale all'emotività e al carattere immaginoso del Dio della Bibbia. Così il divino è l'uno supremo e ineffabile, manifestato dalla scala infinita dei suoi simboli; è la vita razionale e feconda che pervade l'universo e lo raccoglie in un disegno coerente; è la sfera astronomica ultima che tutto contiene e muove nella sua suprema immobilità, animando della sua energia la grande macchina fisica, biologica e spirituale del cosmo.

Accanto a queste forme culturalmente e moralmente esigenti l'antico cristianesimo si è pure formato quella fiorente serie di immagini presentata dagli apocrifi, che nel passato hanno avuto larghissima influenza sulle convinzioni religiose dei popoli cristiani. Il paradiso e l'inferno, le vicende dell'anima, le leggende dei santi, gli interventi meravigliosi per risolvere i problemi dell'esistenza, i prodigi vi hanno un ruolo dominante. La letteratura e le arti plastiche hanno dato a questo tipo di linguaggio cristiano una risonanza vastissima, che è ben lungi dall'essere esaurita. La predicazione poi ha sempre fatto appello a queste immagini vivide e le ha rese spesso caratteristiche del cristianesimo più ovvio.

Divenuto, nel corso del quarto secolo, religione obbligatoria nei territori dell'impero romano, il cristianesimo ereditò funzioni, pratiche e riti caratteristici degli antichi culti nazionali. Il divino e la religione erano lì strettamente congiunti alle strutture del potere, esercitato nelle forme di una dura gerarchia. L'ordine economico, giuridico e militare trovava la sua ultima garanzia nella presenza favorevole e tutelatrice del divino, onorato da un culto obbligatorio ed indiscutibile. Il divino cristiano sembrò spesso assumere i caratteri della legge statale, del rito pubblico, della credenza obbligatoria, del conformismo sociale. Tutto discendeva da un'autorità celeste suprema, che garantiva quelle terrene. Di fronte all'una e alle altre occorreva piegarsi per evitare conseguenze assai pericolose. Quanto questo tipo di cristianesimo abbia pervaso la vita privata e pubblica dei popoli cristiani si può cogliere dal semplice fatto che solo con il Concilio Vaticano secondo la gerarchia cattolica professò la sua fiducia in una piena libertà religiosa. Per molti secoli le grandi chiese cristiane, pur nelle loro differenze dogmatiche ed organizzative, accettarono come normale il sistema della religione di stato ereditato dall'antico diritto romano. Esso appariva come un involucro provvidenziale entro il quale proteggere la fede.

Ma che volto assumeva quel Dio, a nome del quale si tolleravano ingiustizie e miserie, persecuzioni, torture, esili, massacri, roghi e decapitazioni? La ribellione moderna nei confronti del divino non è forse dovuta in gran parte al rifiuto di queste contaminazioni e perversioni? Che cosa ha a che fare il Padre del Gesù evangelico con una feroce e crudele pratica del potere mondano, quale è stata quella praticata per molti secoli anche da chi si professava cristiano? Questa ombra oscura ha gravato a lungo sulle vicende della cristianità e il suo allontanamento esige uno sforzo continuo. Infatti, anche se generalmente quell'antica pratica del potere è tramontata negli stati democratici moderni, può sempre rimanere l'idea di un divino quale garanzia di un ordine economico e politico gerarchizzato, bisognoso di tutele, aperto a trattative di vertice e a solidarietà di interessi. In molti altri casi poi l'antica simbiosi tra potere economico, forza militare e religione è ben lungi dall'essere superata e la nozione del divino assume diverse valenze a seconda che venga usata per difendere un determinato regime o per tentare di superarlo o travolgerlo. Le attuali teologie della liberazione sono in proposito un segnale evidente.

Un altro aspetto del linguaggio religioso più diffuso deriva dall'impegno ascetico e mistico. La teologia monastica e quella degli ordini mendicanti ha sviluppato esigenze caratteristiche del Nuovo Testamento. Lo sforzo di purificazione dal male che nasce nel cuore di ogni essere umano, il dominio di sé, la liberazione dal mondano, la percezione dei bisogni comuni, l'impegno missionario e benefico si accompagnano alla convinzione di vivere in comunione con il divino, di operare assieme alla sua forza effusiva, di essere coinvolti in un disegno universale di redenzione. Questa esperienza personale può assumere il carattere di una costruzione psicologica e morale raffinata, che al suo fondo unifica emotivamente l'io umano con il divino, percepito come un abisso di luce e di amore. La mistica francescana, domenicana e carmelitana hanno presentato a lungo questa loro caratteristica esperienza del divino, che continuamente interpreta e rielabora l'evangelo cristiano ed incontra i bisogni degli animi più sensibili.

Nella cultura dell'epoca cosiddetta moderna l'esperienza religiosa si è trovata di fronte ad una serie di fenomeni che l'hanno condizionata fortemente. Il conflitto delle diverse forme di cristianesimo, il formarsi di chiese nazionali, lo sviluppo della scienza fondata sull'autonomia della ragione rispetto alla tradizione religiosa hanno distrutto quella visione generale dell'universo caratteristica dell'epoca cosiddetta medioevale. Il divino ecclesiastico è stato profondamente coinvolto in dispute senza fine e in conflitti assai acri, nello stesso tempo la razionalità della scienza sembrava diventare il nuovo terreno della dignità, libertà ed efficienza dell'essere umano. Il divino, fuori dalle emozioni, dalle fantasie, dai miti, dai dogmatismi, dalle lotte ideologiche e di potere, poteva trasformarsi in un supremo ideale logico, dialettico, etico. Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant e Hegel possono essere considerati gli annunciatori del nuovo evangelo della razionalità scientifica, capace di proporre una visione universale della storia e del mondo, finalmente liberato da sovrastrutture autoritarie, immaginose oppressive e litigiose. Infine l'epoca più recente ha visto il trionfo della coscienza storica indifferente alla trascendenza metafisica e al soprannaturale. Il linguaggio intorno al divino non può esprimere una realtà assoluta, sistemata da qualche parte nell'universo. Esso è sempre espressione di una coscienza di sé, individuale e sociale, nel flusso infinito delle culture. La conoscenza storica si fa poi analisi sociale ed economica e pensa di trovare nelle strutture della produzione l'arcano più profondo dell'universo come nel marxismo. Oppure si fa analisi etica e psicologica e scruta gli abissi dell'io, come in Nietzsche, in Schopenhauer, in Freud e nell'esistenzialismo.

Alle angosce dell'animo moderno sembrarono infine rispondere i totalitarismi, che divinizzarono lo stato autoritario e militare, quale ultimo prodotto della storia umana e sintesi ultima delle aspirazioni alla sicurezza e al successo. Dopo le catastrofi delle due guerre mondiali, l'occidente ha ricostruito la sua esistenza collettiva sul benessere diffuso, sulla democrazia, sull'utilitarismo e sul narcisismo e il problema del divino vi assume quasi spontaneamente i caratteri della cultura personale, dei sentimenti soggettivi, delle emozioni e delle decisioni dell'io e dei singoli gruppi.

Da questo lungo percorso, qui brevemente tratteggiato, si può trarre la conclusione che pure il linguaggio cristiano intorno al divino muta nel tempo, con il mutare delle culture, delle forme di pensiero e di esperienza, degli schemi morali e politici. La teologia vissuta e proposta dalle chiese cristiane è di fatto multiforme, dialettica, condizionata. Essa risente sempre della relatività storica delle prospettive da cui di volta in volta parte nell'elaborare e nel presentare il suo messaggio. La Bibbia stessa, frutto di una lunga evoluzione storica, presenta il divino in questo modo incompiuto, come un problema che si acuisce sempre di nuovo, come un orizzonte che si apre a prospettive che nessuno può chiudere. La storia culturale ed operativa delle chiese cristiane, nelle sue molteplicità e nelle sue tensioni, ha continuamente riproposto questa dinamicità delle idee teologiche. Quel divino che non ha un volto e il cui nome è impronunciabile non può essere racchiuso da nessuna parola umana, da nessuna formula, da nessuna istituzione. Ogni parola, formula o istituzione è sempre di nuovo chiamata ad un compito non esauribile, che ne fa cogliere il limite e la necessità di un passo ulteriore.

Questa constatazione può sembrare causa di un senso di impotenza, di disperazione. Oppure potrebbe essere accusata come una forma di relativismo estremo, applicata al concetto centrale della teologia cristiana. Forse è meglio pensare questa difficile condizione interna del linguaggio religioso ebraico-cristiano come una ricchezza, una diversità che fa prendere coscienza dei limiti, della complementarità, dell'inesauribilità del problema teologico, della sua universalità non monopolizzabile da alcun concetto, da alcuna persona, cultura o istituzione. Lo stesso problema rinasce sempre in ogni individuo, in ogni epoca o cultura, ma con un volto diverso e con parole e gesti diversi. Quando un'immagine del divino tramonta, non scompare ciò che con quell'immagine si è voluto esprimere. Uno strumento viene meno, ma se ne presentano altri. Accettare questa dura legge significa pure superare la tentazione dell'idolatria, di un divino ben circoscritto, ben amministrato, ben strumentalizzato, ma in fondo immobile e lontano. Se il mondo moderno e quello presente in particolare vedono obnubilarsi molte forme religiose quali furono vissute in passato, si creano nuove possibilità di accesso all'esperienza e al linguaggio del divino. In una storia sempre in movimento dobbiamo domandarci: qual è la nostra posizione oggi? quali sono i nostri compiti? come possiamo valutare l'eredità che ci è stata fornita da un passato molto denso e differenziato? quale volto può avere oggi per noi il divino? di che cosa parliamo quando usiamo la parola "Dio"?

2. Linguaggi esauriti

Oggi una nozione del divino espressa in termini astronomici non può che essere considerata come una metafora assai poco espressiva. Né il Dio biblico che abita sopra la volta celeste, né il Dio aristotelico e dantesco, sfera che contiene tutte le sfere del cosmo, possono superare l'esame di una coscienza critica. Esse appartengono all'archeologia culturale, alla storia della filosofia, dell'astronomia e della poesia. Altrettanto si può dire di un Dio pensato in termini regali, quale supremo sovrano del cosmo e della storia, la cui parola infallibilmente si compie. La democrazia ha eliminato i poteri delle monarchie assolute e tutto il loro apparato sfolgorante. Difficile pure da capire è la nozione patriarcale del divino, legata ad esperienze familiari e tribali oggi molto lontane. Il Dio supremo legislatore della macchina cosmica, della morale individuale e sociale, giudice inflessibile che punisce i disobbedienti e premia i sudditi è anch'essa un'immagine molto sbiadita in una cultura che vuole fissare da sé principi e valori della vita pubblica e privata. La natura poi non appare più come un sistema ben regolato da un trascendete artigiano, ma come un infinito campo di sperimentazione, di conquista, di sfruttamento. Né un Dio percepito o spiegato come un'energia che tutto pervade e sospinge nell'ordine materiale e spirituale ha più molte possibilità di essere accolto. Neanche un Dio autorevolmente amministrato dalla gerarchia clericale per i momenti di ufficialità o di emergenza sembra incidere molto sulle scelte dei più. Il rito appare molto spesso incomprensibile, distante, come una formalità cui non conviene opporsi, ma alla quale non corrispondono scelte impegnative.

Di fronte all'esaurirsi di questi linguaggi religiosi teorici e pratici non sembra molto utile accusare la secolarizzazione moderna, l'edonismo dilagante, la ribellione nei confronti delle leggi morali, l'indifferenza verso regole assolute. Il problema è molto più grave e non riguarda tanto l'eventuale pubblico dell'annuncio religioso cristiano, quanto coloro che se ne assumono il compito. Piuttosto che accusare la cultura e la società contemporanee, i maestri cristiani dovrebbero domandarsi quale è davvero la natura dell'evangelo da loro predicato. Risponde veramente ai caratteri di quello originario, le cui tracce più autorevoli sono depositate nel canone neotestamentario, oppure è ben lungi dal farne sentire gli accenti? Quale tipo di cristianesimo si annuncia, che cosa si propone, di che cosa si parla in realtà? Se uno volesse davvero conoscere l'evangelo partecipando ad una liturgia cristiana, ne sentirebbe davvero l'intensità, la forza, la verità universale? Talvolta si ha l'impressione che il linguaggio religioso pubblico delle chiese cristiane sia ricoperto da una grande quantità di sedimentazioni secondarie che soffocano il rigore e la semplicità della parola evangelica e della sua nozione del divino.

Del resto Gesù di Nazaret, Paolo di Tarso, Giovanni hanno mostrato e mostrano sempre di nuovo, come l'immagine di Dio debba farsi strada proprio attraverso le pretese di linguaggi religiosi che vengono superati, ma che si ergono sempre a rappresentanti della tradizione, della vera moralità, dell'autentica teologia. La continua critica evangelica ed apostolica alla religione della legge e del rito non riguarda solo l'antico Israele. È piuttosto un continuo ammonimento agli scribi e ai farisei di ogni tempo, a coloro che si considerano i custodi ultimi della religione. Il divino dell'evangelo non è una garanzia delle ideologie, degli interessi, delle abitudini di qualcuno che si proclama giusto di fronte ad un mondo peccatore. È il rovescio. Esso apprezza l'entusiasmo, la generosità, l'amicizia, il superamento delle barriere, non l'amministrazione gelosa ed immobile di forme morali e rituali assolutizzate. Richiama sempre all'autocritica, alla testimonianza personale, alla fiducia, al dono di sé, alla comunicazione universale. Esige di scoprire le opere dello Spirito ben oltre i limiti dei calcoli, spinge alla missione, al dialogo con tutti, al superamento di ogni condanna ed estraneità. Apre possibilità di incontro sempre nuove, non chiude e non esclude.

3. Il divino della profezia ebraico-cristiana

La nozione cristiana di Dio, quale è presentata dal Nuovo Testamento ha la sua radice nel profetismo ebraico sviluppatosi tra il secolo ottavo e l'epoca del ritorno dall'esilio babilonese. Si fa luce in una dura e appassionata meditazione sulla storia d'Israele e dei popoli vicini. L'arroganza umana, l'ingiustizia, le illusioni, i raggiri, le guerre, le distruzioni e la morte sono il contesto più immediato della fede profetica. Parole ed opere divine sono considerate fonte di giustizia, di armonia, di pace e di amore in un mondo travolto dalla follia umana. L'annuncio profetico si pone tra un ideale di perfezione collocato ai primordi dell'umanità, ma sempre violato, e la speranza di un universo libero dalla violenza e dalla morte. La fede in Iahwé creatore e salvatore nasce in una coscienza che si ribella al male e alla morte, che ne vede l'origine nelle scelte umane, che esorta appassionatamente a sostituire le azioni generanti rovina con quelle della vita e della gioia. L'universo è affidato alle mani dell'uomo, ma egli invece che tutore, se ne fa distruttore. Sono necessari la conversione, la nuova nascita, il formarsi di un cuore nuovo, lo sperimentare la misericordia e il perdono, perché il male sia superato e l'universo diventi buono, puro, amichevole e giusto come nell'utopia delle origini. Il divino è pensato e vissuto come esperienza viva di conversione, di fiducia, di comunione. Esso si presenta come parola che ammonisce e sollecita, chiama e protesta, invia e sostiene nella lotta contro la morte, padrona del mondo. Assieme ai profeti i Salmi illustrano in modo appassionato questa coscienza del divino e la pratica morale che ne consegue.

L'evangelo cristiano rinnova le attese della profezia ebraica, annuncia una grazia che vinca la colpa, un amore che vinca l'odio, un'intelligenza che superi ogni ignoranza, un impegno che travolga la pigrizia, una comunione che abbatta l'egoismo. L'ottimismo e l'entusiasmo, che sono considerati opera dello Spirito divino, si compiono nei gesti dell'amore che serve, accoglie, trasforma, unisce. Il divino è vissuto come fiducia ed impegno che vincono il male e la morte in tutte le loro forme. Se ne seguiamo ad esempio alcuni tratti quali li mostra l'evangelo di Luca, sentiamo risuonare quell' "oggi" proclamato da Gesù nella sinagoga di Nazaret (Luca 4,16-22). Allora l'empio diventa capace di onorare il divino nel soccorso dello sconosciuto sofferente (Luca 10,25-37); il figlio degenere è atteso ed accolto con gioia (Luca 15,11-32); il disonesto è trattato come un amico (Luca 19,1-10); il delinquente pentito è accolto in paradiso (Luca 23,39-43).

L'immagine dell'adultera sottratta alla condanna (Giovanni 8,1-11) dipinge in modo plastico la grazia divina che, nell'umanità di Gesù, assume un volto umano e libera dalla morte i peccatori. Dottrine e gesti cristiani, parole ed azioni e, molte volte, azioni senza necessità di parole devono mostrare questa loro profonda radice. Il Dio dell'evangelo è annunciato da quei comportamenti umani che fanno sempre di nuovo palpitare la vita e la speranza in chi è attanagliato dalla paura e dalla morte. Gli schemi dottrinali, giuridici, rituali di cui il cristianesimo si è avvolto, quasi a propria difesa, spesso sembrano far dimenticare il messaggio concreto della grazia, della fiducia, della liberazione dal male. Probabilmente nella critica che il mondo moderno ha fatto del cristianesimo o nell'indifferenza che spesso attornia le sue forme storiche, si annida una nostalgia della sua purezza e della sua semplicità, un desiderio di ascoltarlo e di vederlo nella sua essenzialità ed universalità. Chi si preoccupa delle sorti del problema di Dio e del cristianesimo nel mondo di oggi dovrebbe trovare la risposta ai suoi interrogativi nell' "evangelium sine glossa" e nella sua perenne attualità. I problemi teorici ed organizzativi sono sempre secondari in un tipo di religione che vorrebbe partire dall'umiltà e dalla semplicità della dedizione personale e dall'effettiva pratica di un ideale. Questa deve condurre alla conoscenza del divino e alla sua realtà nascosta, come sottolinea il discorso della montagna (Matteo 5-7).

4. I dogmi e la nozione del divino

Il cristianesimo, a contatto con le forme filosofiche del mondo ellenistico, è stato ben presto costretto a darsi una compiuta struttura dottrinale. Le formule dei concili ecumenici dei secoli quarto e quinto hanno delineato in modo molto netto la nozione del divino e il modo della sua presenza nella vita del mondo e degli esseri umani. Il dogma trinitario e cristologico ha fornito un'intelaiatura essenziale e la formula del Credo la esprime in modo molto chiaro e circostanziato. Molte volte però le formule stesse e la loro recitazione ufficiale nascondono la ricchezza spirituale e morale che in esse è sintetizzata. Il dogma trinitario, che vuole esprimere la più intima essenza del divino cristiano, può apparire oggi a prima vista un enigma logico e metafisico. Esso poteva sembrare dotato di alte qualità speculative e pratiche a chi condivideva una cultura ispirata a canoni stoici o neoplatonici. La filosofia greca infatti si era avviata verso la contemplazione dell'uno, fonte di vita e di luce, che si comunicava per gradi nella realtà inferiore per attrarla a sé e chiuderla nella sua perfezione, liberandola da quanto non fosse conforme al suo puro splendore. Oggi simili strutture di pensiero non soccorrono più chi volesse indagare il dogma cristiano.

Può essere opportuno allora volgersi al contenuto biblico, esperienziale e morale di quei concetti, divenuti spesso così astratti da scomparire nell'attenzione dei più. La teologia del Padre, del Figlio e dello Spirito ha bisogno di esprimere sempre di nuovo quanto l'esperienza dei primi cristiani ha raccolto in quelle nozioni. Con questi concetti ha voluto annunciare un divino comunicantesi, presente, operante, manifestatosi nella storia d'Israele, in quella di Gesù e nella prima comunità cristiana. Con l'immagine del Padre ha voluto porre quale origine prima di tutta la realtà una vita effusiva, amante, commossa, principio e modello di ogni esistenza positiva, criterio di accoglienza e di comunicazione. Se si percorresse tutto il Nuovo Testamento nella sua illustrazione continua della paternità del divino, se ne trarrebbe un'immagine di Dio molto complessa, esigente, vibrante. Si dovrebbe andare dalla perfezione del Padre che fa scendere la pioggia e salire il sole sui giusti e sugli ingiusti, alla preghiera fiduciosa ed impegnata, al denudamento della croce, all'entusiasmo della fiducia e della testimonianza, alla vita morale comunitaria quale dono reciproco di vita, alla continua rinascita ad una vita libera dalla colpa e dalla morte.

L'immagine del Figlio, complementare a quella del Padre, assume un rilievo molto concreto nel Gesù della storia e della fede, nella memoria e nella continua presenza delle sue parole e dei suoi gesti. Il Padre come fonte di vita è comprensibile nell'umanità del Figlio, che condivide l'esistenza umana in tutta la sua intensità. Dalla parabola e dal gesto che perdona e risana fino all'amore crocifisso e alla comunione spirituale e morale, il divino che si manifesta nel Figlio è intessuto di esperienze concrete e si mostra come la via che conduce alla vita. Anche oggi, con la medesima duttilità che il Nuovo Testamento ci mostra, occorre lasciare parlare tutti gli aspetti dell'umanità di Gesù di Nazaret, senza volerli ridurre rapidamente a schemi dottrinali, che finirebbero per soffocarne la ricchezza e sminuirne la possibilità di accesso alla nozione evangelica del divino. L'immagine esemplare del Figlio esprime una ricerca di intelligenza, di ordine, di armonia, di verità e di giustizia, rispondendo in questo modo ad esigenze che si annidano nell'animo di ogni essere umano. Occorre probabilmente che questo linguaggio umano della Parola divina venga fatto effettivamente risuonare, sia sul piano intellettuale che su quello pratico. La sensibilità odierna è molto più aperta all'esperienza etica, psicologica e sapienziale, di quanto non lo sia ad un linguaggio mutuato da nozioni metafisiche o giuridiche. Del resto anche l'antico linguaggio dogmatico, pur nell'uso di formule sintetiche, voleva difendere con queste la ricchezza dell'esperienza spirituale dei singoli e delle comunità.

La teologia dello Spirito ha poi subito, soprattutto nel cristianesimo occidentale, una quasi completa atrofia. Nella prospettiva del Nuovo Testamento è invece percepita come il punto d'incontro tra l'esperienza religiosa del singolo e della comunità con la realtà del divino. Qui la teologia cristiana appare come desiderio di trasformazione morale e psicologica, come fonte di conversione, di impegno, di felicità, di comunione. Il Credo proclama lo Spirito quale donatore di vita, ovvero come liberazione dal male nell'esistenza degli esseri umani. Anche qui, se si percorrono le tracce del Nuovo Testamento, appaiono i diversi modi in cui ciò avviene. Si potrebbe sintetizzare questa prospettiva teologica con l'affermazione che il dogma trinitario voglia esprimere il divino come vita che si concretizza e specifica nell'intelligenza e nell'amore. Volendo partire dalla concretezza dell'esperienza degli esseri umani, si potrebbe dire che ogni vita, ogni intelligenza ed ogni amore, strettamente legati tra loro, sono segno del divino e via che ad esso conduce. Ciò che in modo eminente è affermato del divino, può essere detto pure nei limiti dell'esperienza umana, quale ricerca del più elevato e più efficace criterio intellettuale e morale.

Le formule dogmatiche, liturgiche o devozionali esprimono una concezione generale della vita, intesa come evangelo teorico e pratico di quanto è positivo, utile e giusto per gli esseri umani. Il divario tra una trascendenza metafisica, che appare sempre più evanescente, e l'esperienza effettiva dell'empiria umana può essere colmato in una continua dialettica della ricerca di vita, intelligenza ed amore. L'antica teologia cristiana era ben conscia di questo nesso: Ireneo, Tertulliano, Origene, Ambrogio ed Agostino lo dimostrano nelle loro indagini intorno alla nozione e all'esperienza del divino. Esso apparve di fatto e concretamente, di fronte alle angosce dell'umanità antica, come un supremo criterio intellettuale e morale della vita umana, come un principio di somma sapienza e di amore senza ombre, cui ogni animo può aspirare.

Occorre però trovare il nesso positivo e sperimentabile tra la coscienza di sé attuale e un ideale spesso presentato in modo astratto, formale, autoritario ed infantile. Possiamo percorrere brevemente alcune tappe di un simile itinerario. La natura nella sua immediatezza può fornire le prime tracce di questa ricerca. Le culture e le religioni possono costituire un secondo passo. La figura di Gesù costituisce poi l'alfabeto tipicamente cristiano della teologia. Egli è il maestro di quella scuola che conduce a capire chi è il divino, dove sta, come ci si unisce a lui. Così insegna soprattutto l'evangelo giovanneo con la sua sottile ermeneutica e con il suo desiderio di far scoprire la realtà suprema nell'intimo di se stessi e nel gesto dell'amore reciproco.

Il divino cristiano assume poi un carattere ecclesiale e la celebrazione dei simboli liturgici deve essere luogo di intelligenza, di istruzione, di comunione, come ricordava il Concilio Vaticano secondo. La preghiera è coscienza di questo cammino, espressione del desiderio di verità e di amore e, nelle sue infinite forme, è esercizio della presenza del divino. La Scrittura è il testo essenziale di questa scuola, raccoglie le tracce di una lunga vicenda, le comunica ed esige di vederla fatta propria dal lettore come un compito suo e presente. Infine la vita morale è il sigillo e la testimonianza della presenza del divino nei limiti e nelle vicissitudini dell'esperienza umana. Questo itinerario è iscritto nelle strutture più tradizionali del cristianesimo. Ma ha bisogno di essere ripercorso sempre di nuovo dai singoli e dalle comunità, con accenti propri e secondo le necessità del momento storico. La coscienza del divino non si pone come un dato a priori o come una realtà scontata nell'affermazione o nella negazione di essa. È piuttosto la meta di un "itinerarium mentis in Deum", come aveva spiegato Bonaventura. Sta davanti a noi, non dietro, nel percorso della storia personale e comunitaria. È oggetto di ricerca non di possesso, esige una continua trasformazione di se stessi, si affina e si evolve continuamente, appartiene a tutti e non è monopolio di nessuno, spinge alla comprensione, all'intelligenza, esige la libertà. È l'orizzonte ultimo di ogni aspirazione umana, anche se essa molte volte si ricopre di panni meschini e contorti. È infine l'affermazione della vita contro la morte.

Dogmi e riti cristiani, dalla trinità alla creazione, dall'incarnazione alla chiesa e all'escatologia, devono raccogliere ed esprimere i caratteri più intensi dell'esperienza, devono essere caricati di tutte le ricchezze e miserie dell'umanità che cerca il suo vero volto, altrimenti si riducono a schemi incomprensibili ai più.

5. Conclusione

Il problema cristiano di Dio, del Padre rivelato dal Figlio nella comunione dello Spirito, esprime tutta la ricchezza e la positività della vita umana. È ricerca di vita, di intelligenza e di amore e nessun aspetto del cosmo ne deve essere escluso, come non ne deve essere escluso alcun essere umano. Ancor più concretamente la nozione del divino è affermazione di grazia per coloro che sentono la propria insufficienza, tanto più quando cercano di nasconderla sotto le maschere opposte. È testimonianza di giustizia fattiva e rigeneratrice di fronte agli orrori della storia collettiva e alle vicende dei singoli. È esercizio di libertà e di coerenza di fronte all'illibertà, alla viltà, alla schiavitù. È critica continua di se stessi. È coscienza di sé nel modo più vivo, intenso e dialettico. È continuo tentativo di comunione con gli altri. È lotta contro il male e la morte, che sempre rinnovano la loro potenza. È speranza che nasce continuamente là dove sembra venire meno. È amore che vince l'odio, l'estraneità, il rifiuto.

Così il problema di Dio è il problema di noi stessi, di ogni essere umano che non si acquieta mai. Infine, secondo la fede cristiana, il volto di Dio è il volto di un uomo, di un figlio di donna, come tutti i suoi fratelli e le sue sorelle. Non bisognerebbe allora scoprirlo in ogni volto umano, anzi in ogni creatura? Se è così, non è poi tanto lontano, ma molte volte quello che è più semplice, viene reso molto complicato. Chissà perché. L'evangelo afferma che talvolta si preferiscono le tenebre alla luce per nascondere le proprie deficienze (Giovanni 3,20-21), quando si assolutizza una propria idea di sé, ci si piega di fronte alle sue presunte esigenze e si vorrebbe che gli altri facessero altrettanto.

Roberto Osculati